L'inglese ricevette i suoi ringraziamenti colla flemma particolare
alla sua gente, e prese congedo da Morrel, che lo ricondusse
benedicendolo fino alla porta.
Sulle scale incontrò Giulia: la ragazza sembrava discendere, ma in
realtà lo aspettava.
"Oh, signore!" disse giungendo le mani.
"Signorina" disse lo straniero, "voi un giorno riceverete una
lettera firmata... Sindbad il marinaio. Fate appuntino ciò che vi
dirà la lettera per quanto strana vi possa sembrare la
raccomandazione."
"Sì, signore" rispose Giulia.
"Mi promettete di farlo?"
"Ve lo giuro."
"Basta così: addio signorina, siate sempre buona e savia come
siete ed ho fiducia che Iddio vi ricompenserà, dandovi per marito
Emanuele."
Giulia mandò un piccolo grido, divenne rossa come una ciliegia, e
si tenne al cordone delle scale per non cadere.
Lo straniero continuò il cammino, facendole un gesto di addio. Nel
cortile incontrò Penelon che teneva un rotolo di cento franchi in
ciascuna mano, e che sembrava non potersi risolvere a portarli
via.
"Venite, amico mio" gli disse, "ho bisogno di parlarvi."
Capitolo 30.
IL 5 SETTEMBRE.
Questa dilazione accordata dal mandatario della casa Thomson e
French al momento in cui Morrel meno se lo aspettava, parve al
povero armatore uno di quei ritorni di benessere che annunziano
all'uomo la sorte essersi alfine stancata di perseguitarlo.
Lo stesso giorno raccontò a sua figlia e ad Emanuele ciò che gli
era accaduto; e un poco di speranza, se non di tranquillità,
rientrò nella famiglia. Disgraziatamente però Morrel non aveva
affari soltanto con la casa Thomson e French che si era mostrata
tanto facile ad un accomodamento; com'egli aveva detto, nel
commercio si hanno corrispondenti, e non amici.
Allorché vi pensava profondamente, non comprendeva neppure la
condotta generosa della casa Thomson e French verso di lui, e non
la spiegava che con questa riflessione superlativamente egoista,
che questa Casa doveva aver detto: val meglio sostenere quest'uomo
che ci deve quasi trecentomila franchi, e avere questa somma in
capo a tre mesi, che sollecitarne la rovina, e avere il sei o
l'otto per cento del capitale. Disgraziatamente, fosse odio, fosse
accecamento, tutti i corrispondenti di Morrel non fecero la stessa
riflessione.
Le cambiali sottoscritte da Morrel furono presentate alla cassa
con uno scrupoloso rigore, e grazie alla dilazione accordata
dall'inglese furono pagate pronta cassa da Coclite, che continuò a
rimanere tranquillo. Il solo Morrel vide con terrore, che se
avesse dovuto rimborsare al 15 i centomila franchi di de Boville,
e al 30 i trentaduemilacinquecento franchi di cambiali, per le
quali, come per quelle dell'ispettore delle prigioni, aveva
ottenuta una dilazione, sarebbe stato fin da quel mese un uomo
perduto.
L'opinione di tutti i negozianti di Marsiglia era che Morrel non
avrebbe potuto sostenere tutti i rovesci successivi che
l'opprimevano. Fu dunque grande la meraviglia quando lo si vide
compiere i pagamenti di fine mese coll'ordinaria esattezza.
Ma non per questo ritornò la fiducia negli animi, e in molti
predissero che alla fine del mese seguente sarebbe stato
depositato il bilancio del disgraziato armatore.
Tutto il mese passò in sforzi inauditi da parte di Morrel per
riunire tutte le sue risorse. In altri tempi le sue cedole, a
qualunque data, erano prese con fiducia, ed anzi richieste da
tutti. Morrel tentò di negoziare delle cedole colla scadenza di
novanta giorni, e trovò tutti i banchi chiusi.
Fortunatamente, aveva qualche incasso sul quale contare, e questo
fu fatto: così si trovò ancora in condizione di far fronte ai suoi
obblighi quando giunse la fine di luglio. D'altra parte, il
mandatario della casa Thomson e French non era più stato visto a
Marsiglia.
L'indomani della sua visita a Morrel era sparito: siccome in
Marsiglia non aveva avuto a trattare che col sindaco,
coll'ispettore delle prigioni, e con Morrel, così il suo passaggio
non aveva lasciata altra traccia che i ricordi diversi che ne
conservavano queste tre persone. In quanto ai marinai del Faraone
sembrava che avessero ritrovato da impiegarsi, poiché essi pure
erano spariti. Il capitano Gaumard rimessosi dalla malattia che lo
aveva trattenuto a Palma ritornò egli pure: esitò a presentarsi al
signor Morrel; ma questi saputo il suo arrivo, andò in persona a
trovarlo. Il degno armatore sapeva già dal racconto di Penelon
della coraggiosa condotta tenuta dal capitano durante tutto il
naufragio, e si sforzò di consolarlo. Gli portò l'ammontare del
suo soldo, che il capitano Gaumard non avrebbe certamente osato
andare a riscuotere.
Quando Morrel discese la scala incontrò Penelon che saliva: aveva,
a quanto sembrava, fatto un buon uso del denaro, poiché era
vestito tutto di nuovo. Riconoscendo il suo armatore, il degno
timoniere parve molto impacciato; si ritirò nell'angolo più
lontano del pianerottolo, masticando il tabacco e girando due
grossi occhi spaventati, non rispose che con una timida pressione
alla stretta di mano che gli offerse Morrel colla sua ordinaria
cordialità.
Morrel attribuì l'impaccio di Penelon all'eleganza del vestito:
era evidente che non era entrato di tasca propria in tanto lusso;
e chiaramente doveva essere già impiegato a bordo di qualche altro
bastimento, e la vergogna gli veniva dal non avere, se è lecito
esprimersi così, portato per un tempo maggiore il lutto del
Faraone.
Forse si recava dal capitano Gaumard per metterlo a parte della
sua fortuna, e per fargli delle offerte da parte del nuovo
padrone.
"Brava gente!" disse Morrel allontanandosi. "Possa il vostro nuovo
padrone amarvi come vi amavo io, ed essere più felici di me!..."
Passò il mese di agosto in tentativi, senza posa rinnovati da
Morrel, per rialzare il suo credito, o per aprirsene uno nuovo.
Il 20 agosto si seppe a Marsiglia che Morrel aveva prenotato un
posto nella Valigia postale; allora tutti opinarono che alla fine
del mese si sarebbe depositato il bilancio, e che Morrel era
partito prima per non assistere a quest'atto crudele, delegando
senza dubbio il suo primo commesso Emanuele, e il cassiere
Coclite. Ma contro ogni previsione allorché giunse il 31 agosto,
la cassa si aprì secondo il solito.
Coclite apparve dietro l'inferriata, tranquillo come il giusto di
Orazio, esaminò colla stessa attenzione le cedole che gli vennero
presentate, e pagò le tratte dalla prima all'ultima colla stessa
esattezza.
Vennero anche presentati due rimborsi previsti da Morrel, e
Coclite li pagò con la puntualità propria dell'armatore. Nessuno
ne capiva niente, ed i profeti di cattive notizie, con una
particolare ostinazione, rinviavano il fallimento alla fine di
settembre.
Giunse il primo del mese. Morrel era atteso da tutta la famiglia
colla più grande ansietà, mentre contavano sull'esito del suo
viaggio a Parigi come sull'ultima via di salute.
Morrel aveva pensato a Danglars, divenuto milionario, ed un giorno
suo sottoposto, perché era stata la raccomandazione di Morrel a
far entrare Danglars al servizio del banchiere spagnolo, presso il
quale aveva cominciata la sua immensa fortuna. Si diceva che
Danglars era possessore di sei-otto milioni, e che godeva di un
credito illimitato.
Danglars senza levarsi uno scudo di tasca poteva salvare Morrel:
non aveva che garantire un prestito, e Morrel era salvo. Morrel da
lungo tempo aveva pensato a Danglars; ma vi sono alcune istintive
repulsioni che non sappiamo superare. Aveva aspettato fino a che
gli era stato possibile, prima di ricorrere a quest'ultimo mezzo.
E ne aveva avuta ragione, poiché ritornava oppresso
dall'umiliazione e dal rifiuto.
Al ritorno non manifestò alcun lamento, non proferì alcuna
recriminazione; aveva stesa la mano amichevolmente ad Emanuele, si
era chiuso nel suo ufficio del secondo piano, ed aveva chiesto di
Coclite. Le due donne dissero ad Emanuele:
"Siamo perdute."
Quindi in un breve conciliabolo tenuto fra loro, convennero che
Giulia avrebbe scritto al fratello, in guarnigione a Nimes, di
venire sul momento. Le povere donne sentivano di avere bisogno di
tutte le loro forze per sostenere il colpo che le minacciava;
d'altra parte Massimiliano Morrel, quantunque nell'età di ventidue
anni, aveva già una grande influenza su suo padre.
Era un giovane deciso e abile.
Al momento di decidersi per la carriera, suo padre non aveva
voluto imporgli una scelta ma aveva consultato il giovane
Massimiliano.
Questi aveva detto di voler seguire la carriera militare: aveva
per conseguenza fatti degli eccellenti studi, era entrato per
concorso nella scuola politecnica, e n'era uscito sottotenente al
53 di linea.
Dopo un anno che occupava questo posto, aveva già la promessa che
alla prima occasione l'avrebbero nominato tenente. Nel reggimento,
Massimiliano Morrel era citato come il più rigido osservatore non
solo di tutti gli obblighi imposti al soldato, ma anche di tutti i
doveri propri all'uomo, e non veniva chiamato con altro nome, che
con quello di stoico.
Inutile dire che la maggior parte di coloro che lo chiamavano con
tal soprannome, lo ripetevano per averlo inteso dire, ma non
sapevano che cosa volesse significare.
La madre e la sorella lo chiamavano in loro soccorso per
sostenerle nella grave situazione che presagivano. Non si erano
ingannate sulla gravità di questi presentimenti perché un momento
dopo che Morrel era entrato nel suo ufficio con Coclite, Giulia
vide uscire quest'ultimo pallido, tremante e col viso sconvolto.
Volle interrogarlo quando le passò accanto, ma il brav'uomo
continuò a scendere la scala con una precipitazione che non gli
era solita, e si contentò di gridare alzando le braccia al cielo:
"Oh signorina, signorina! Quale orribile disgrazia, e chi
l'avrebbe mai creduto!"
Poco dopo, Giulia lo vide risalire portando due o tre grossi
registri, e un rotolo di monete.
Morrel consultò i registri, aprì il portafogli, contò le monete.
Tutte le sue risorse ascendevano a sei o otto mila franchi; i suoi
crediti, realizzabili fino al giorno 5, a quattro o cinque mila;
ciò che formava in contante, a dir molto, un attivo di
quattordicimila franchi, per far fronte ad una cambiale di
duecentottantasettemilacinquecento franchi. Non era neppure lecito
offrire una simile somma in acconto.
Però quando Morrel scese per pranzare, sembrava assai tranquillo:
il che spaventò le due donne assai più di un sommo abbattimento.
Dopo pranzo Morrel aveva l'abitudine di uscire; andava a prendere
il caffè al circolo dei Phocéens, o a leggere il "Sémaphore": quel
giorno non uscì, risalì nel suo ufficio. Quanto a Coclite,
sembrava completamente ebete.
Durante una parte del giorno si era trattenuto in cortile, seduto
sopra una pietra, con la testa nuda sotto un sole di trenta gradi.
Emanuele cercava di tranquillizzare le donne, ma non aveva
sufficiente eloquenza. Il giovane era troppo al corrente degli
affari per non sapere che una grande catastrofe era imminente
sulla famiglia Morrel.
Venne la notte; le due donne vegliarono nella speranza che Morrel
scendendo dall'ufficio sarebbe passato da loro; ma lo intesero
passare dalla loro porta, camminando sulla punta dei piedi, per
timore forse di esser chiamato: tesero le orecchie, e udirono che
entrò in camera sua, e si chiuse dal di dentro.
La signora Morrel mandò sua figlia a dormire; quindi, mezz'ora
dopo che Giulia si era ritirata, si alzò, si tolse le scarpe,
entrò nel corridoio per vedere dalla serratura ciò che faceva suo
marito; s'accorse allora d'un'ombra che si ritirava.
Era Giulia che, inquieta anch'essa, aveva preceduta sua madre.
La ragazza le andò incontro dicendole:
"Scrive."
Le due donne avevano avuto lo stesso pensiero senza esserselo
comunicato. La signora Morrel guardò per il buco della serratura.
Infatti Morrel scriveva: ma ciò che non aveva visto la figlia, lo
notò la madre; Morrel scriveva sopra una carta bollata. Le venne
la terribile idea che facesse il suo testamento; rabbrividì e non
ebbe forza di dire una parola.
Il giorno dopo Morrel sembrava perfettamente tranquillo, si fermò
allo scrittoio come d'ordinario e discese a far colazione. Solo
dopo pranzo fece sedere la figlia vicino, cinse la testa della
ragazza col suo braccio, e la tenne lungamente contro il petto.
La sera Giulia disse a sua madre che per quanto in apparenza
sembrasse tranquillo, aveva notato che il cuore di suo padre
batteva violentemente. Nello stesso modo passarono gli altri due
giorni.
Il 4 settembre verso sera, Morrel chiese a sua figlia la chiave
del suo ufficio. Giulia rabbrividì a questa domanda che gli sembrò
di cattivo augurio.
Perché dunque suo padre voleva questa chiave che lei aveva sempre
custodito, e che non le era mai stata tolta, meno nell'infanzia
nei giorni in cui la si voleva castigare?
La ragazza guardò Morrel.
"Che ho fatto di male, padre mio" disse, "perché mi riprendiate
questa chiave?"
"Niente, figlia mia" rispose lo sventurato Morrel a cui questa
semplice domanda fece sgorgare dagli occhi il pianto, "nulla; solo
ne ho bisogno."
Giulia finse di cercare la chiave.
"L'avrò lasciata in camera mia" mentì.
Uscì, ma invece di andare nella sua camera, discese e corse a
consigliarsi con Emanuele.
"Non restituite la chiave a vostro padre" disse questi, "e
domattina, se è possibile, non lo lasciate solo un momento."
Lei cercò invano di interrogare Emanuele, ma questi non sapeva
altro, o non volle dire di più.
Durante tutta la notte dal 4 al 5 settembre la signora Morrel
restò coll'orecchio contro la bussola, fino alle tre del mattino;
intese suo marito camminare con agitazione nella camera; solo dopo
le tre si gettò sul letto.
Le due donne passarono insieme il resto della notte. Fin dalla
sera antecedente aspettavano Massimiliano.
Alle otto Morrel entrò nella loro camera: egli era tranquillo, ma
gli si leggeva sul viso pallido e smunto l'agitazione della notte.
Le donne non osarono chiedergli se aveva riposato bene. Morrel fu
affabile con sua moglie, più tenero con sua figlia di quel che non
fosse mai stato: non si stancava di guardare ed abbracciare la
povera ragazza.
Giulia si ricordò la raccomandazione di Emanuele, e volle
accompagnare il padre quando uscì, ma questi la respinse con
dolcezza, dicendole:
"Resta con tua madre."
Giulia volle insistere.
"Lo voglio" disse Morrel.
Era la prima volta che diceva a sua figlia: "Lo voglio!". Ma lo
disse con tale accento di paterna dolcezza, che Giulia non osò
opporsi. Rimase al suo posto, ritta, muta ed immobile.
Pochi momenti dopo la porta si aprì, ed ella sentì due braccia che
la stringevano ed un bacio sulla fronte. Alzò gli occhi, e mandò
un'esclamazione di gioia.
"Massimiliano, fratello mio!" gridò.
A queste grida la signora Morrel accorse, e si gettò fra le
braccia del figlio.
"Madre mia" disse il giovane guardando alternativamente la madre e
la sorella, "che accade? La vostra lettera mi ha spaventato!"
"Giulia" disse la signora Morrel facendo un segno al figlio, "va'
a dire a tuo padre che è giunto Massimiliano."
La ragazza si lanciò fuori dell'appartamento; ma sul primo gradino
della scala incontrò un uomo che teneva una lettera in mano
"Non siete voi la signorina Giulia Morrel?" disse quest'uomo con
accento italiano.
"Sì" rispose Giulia balbettando, "ma che volete? Non vi conosco."
"Leggete questa lettera" disse l'uomo presentandole il biglietto.
Giulia esitava.
"Ne va della salute di vostro padre!" disse il messaggero.
La ragazza gli tolse il biglietto dalle mani, poi l'aprì e lesse
con ansietà:
"Portatevi in questo medesimo punto ai viali di Meillan, entrate
nella casa n. 15, domandate al portinaio la chiave della camera
del quinto piano; entrate; prendete dall'angolo del caminetto una
borsa di cordonetto di seta rossa e recatela subito a vostro
padre. E' indispensabile che l'abbia prima delle undici. Voi mi
avete promesso di obbedirmi ciecamente; invoco la vostra promessa.
Sindbad il marinaio."
La ragazza gettò un grido di gioia, volle interrogare l'uomo che
le aveva rimesso il biglietto, ma era già sparito.
Riportò allora gli occhi sul biglietto per leggerlo una seconda
volta, si accorse che c'era un Post-scriptum. e lo lesse.
"E' importante che adempiate questa missione in persona, e sola;
se verrete in compagnia o altri verranno in vece vostra, il
portinaio vi risponderà che non sa ciò che volete dire."
Questo post-scriptum fece una forte impressione alla giovane.
Doveva temere qualche cosa? Poteva esser questo una trappola che
le si tendeva? La sua innocenza non le permetteva di sapere quale
erano i pericoli che poteva correre una ragazza della sua età. Ma
non c'è bisogno di conoscere i pericoli per temerli; anzi si
temono precisamente di più i pericoli che non si conoscono.
Giulia esitò; risolvette di domandar consiglio, ma per uno strano
sentimento non lo chiese, né a sua madre né a suo fratello,
ricorse ad Emanuele. Ridiscese, raccontò l'accaduto nel giorno in
cui il mandatario della Casa Thomson e French venne da suo padre,
la scena della scala, ripeté la promessa che aveva fatta, e mostrò
la lettera.
"Bisogna andare signorina" disse Emanuele.
"Andare?" mormorò Giulia.
"Sì, vi accompagnerò."
"Ma non avete letto che debbo andare sola?"
"Sarete ugualmente sola, vi aspetterò all'angolo della strada del
Museo e se tardate in modo da farmi nascere qualche inquietudine
verrò a raggiungervi, e, ve l'assicuro, disgraziati coloro di cui
avrete a lamentarvi!"
"In tal modo, Emanuele" riprese esitando la ragazza, "il vostro
consiglio è che io accetti questo invito?"
"Sì... Il messaggero non vi ha detto che si tratta della salvezza
di vostro padre?"
"Ma che pericolo corre mio padre?" domandò la ragazza.
Emanuele esitò un momento, ma il desiderio che Giulia si
risolvesse sul momento e senza ritardo la vinse.
"Ascoltate" disse, "non è oggi il 5 settembre?"
"Sì."
"Oggi alle undici vostro padre deve pagare circa trecentomila
franchi."
"Sì, lo sappiamo."
"Ebbene" disse Emanuele, "egli non ne ha neppure quindicimila in
cassa."
"E allora che avverrà?"
"Avverrà che se prima delle undici non trova qualcuno che gli
venga in aiuto, vostro padre sarà obbligato a mezzodì, di
dichiararsi fallito."
"Ah, venite" gridò la ragazza, trascinando Emanuele.
In quel mentre la signora Morrel aveva detto tutto a suo figlio.
Il giovane sapeva bene che in conseguenza delle successive
disgrazie capitate a suo padre, erano state introdotte molto
modifiche nelle spese di casa; ma non sapeva che le cose fossero
giunte a tal punto. Rimase annichilito; ma subito si lanciò fuori
dall'appartamento, salì rapidamente le scale, credendo di
ritrovare il padre in ufficio; ma bussò invano.
Mentre era alla porta, sentì che quella dell'appartamento si
apriva, si volse e vide suo padre. Invece di risalire direttamente
al suo ufficio, Morrel era rientrato nella sua camera, e ne usciva
allora soltanto; egli mandò un grido di sorpresa scorgendo
Massimiliano, poiché ne ignorava l'arrivo.
Rimase immobile al suo posto, strinse col braccio sinistro un
oggetto che teneva nascosto sotto l'abito. Massimiliano scese
sollecitamente la scala e si gettò al collo di suo padre; ma
d'improvviso si ritrasse, lasciando soltanto la destra appoggiata
al petto di Morrel.
"Padre mio" disse, diventando pallido come la morte, "perché avete
un paio di pistole sotto l'abito?"
"Oh, ecco ciò che io temevo" disse Morrel.
"Padre mio... padre mio! In nome del cielo" gridò il giovane, "che
volete fare di queste armi?"
"Massimiliano" rispose Morrel tenendo lo sguardo fisso sul figlio,
"tu sei un uomo, ed un uomo d'onore, vieni, te lo dirò."
E Morrel salì con passo sicuro fino al suo ufficio, mentre
Massimiliano lo seguiva barcollando: aprì la porta, e la rinchiuse
dopo che fu passato il figlio, quindi traversò l'anticamera,
s'avvicinò allo scrittoio, depose le pistole sull'angolo della
tavola, e mostrò a suo figlio colla punta del dito un registro
aperto, su esso era fedelmente trascritto lo stato esatto della
situazione: Morrel doveva pagare fra mezz'ora
duecentottantasettemilacinquecento franchi ed in tutto ne
possedeva quindicimiladuecentocinquantasette.
"Leggi!" disse Morrel.
Il giovane lesse e rimase un momento annientato.
Morrel non diceva una parola: che avrebbe potuto dire o aggiungere
all'inesorabile decreto delle cifre?
"E voi padre mio, avete fatto tutto il possibile per prevenire
questa disgrazia?" disse dopo breve silenzio il giovane.
"Sì" rispose Morrel.
"Non contate su alcun rimborso?"
"No."
"Avete esaurite tutte le risorse?"
"Tutte."
"E fra mezz'ora..." aggiunse con voce cupa, "il nostro nome sarà
disonorato?"
"Il sangue lava il disonore" disse Morrel.
"Avete ragione, padre mio, ora vi comprendo."
Quindi stese la mano verso le pistole.
"Ve n'è una per voi e un'altra per me" disse. "Grazie!"
Morrel gli fermò la mano.
"E tua madre... e tua sorella... chi le nutrirà?"
Un fremito corse per tutte le membra del giovane.
"Padre" disse, "pensate che con ciò che mi dite io possa vivere?"
"Si, te lo dico" riprese Morrel, "perché questo è il tuo dovere;
tu hai lo spirito tranquillo e forte, Massimiliano... tu non se
uno dei soliti uomini. Nulla ti comando, nulla ti ordino; ti dico
soltanto: Esamina la situazione come se tu vi fossi estraneo, e
giudicala da te stesso."
Il giovane rifletté un momento, quindi l'espressione della più
sublime rassegnazione passò nei suoi occhi; solo si tolse con un
movimento triste e lento la spallina e la mozzetta, distintivi del
suo grado.
"Sta bene" disse tenendo la mano a Morrel, "morite in pace, padre
mio, io vivrò."
Morrel fece un movimento per gettarsi alle ginocchia del figlio.
Massimiliano lo accolse fra le braccia, e per un momento questi
due nobili cuori batterono l'un contro l'altro.
"Tu sai che non è per mia colpa?" disse Morrel.
Massimiliano sorrise.
"So, padre mio, che siete l'uomo più onesto che abbia mai
conosciuto."
"Sta bene, è detto tutto: ora ritorna da tua madre e da tua
sorella."
"Padre mio" disse il giovane piegando un ginocchio, "beneditemi!"
Morrel prese la testa di suo figlio fra le mani, l'avvicinò a sé,
e v'impresse molti baci dicendo:
"Oh, sì, sì, ti benedico nel mio nome, nel nome di tre generazioni
di uomini irreprensibili. Ascolta dunque ciò che essi ti dicono
colla mia voce: l'edificio che la sventura ha distrutto, può
essere riedificato dalla divina Provvidenza. Sapendomi morto in
questo modo, i più inesorabili avranno pietà di me; a te forse
sarà accordata una dilazione che a me sarebbe stata negata. Allora
fa' che la parola infame non sia pronunziata; mettiti all'opera,
lavora, ragazzo! lotta ardentemente e con coraggio! Vivete tu, tua
madre, e tua sorella del puro necessario, affinché giorno per
giorno i beni di coloro che amo aumentino e fruttifichino fra le
tue mani. Pensa che sarà un bel giorno, un gran giorno, un giorno
solenne quello della riabilitazione, il giorno in cui, da questo
stesso scrittoio tu potrai dire: "Mio padre è morto perché non
poteva fare ciò che ho fatto io, ma è morto tranquillo, perché
morendo sapeva che io lo avrei fatto."
"Oh, padre mio, padre mio" esclamò il giovane, "se pure poteste
vivere!..."
"Se io vivo tutto è perduto; se io vivo, la premura si cambia in
dubbio, la pietà in accanimento; se io vivo, non sono più che un
uomo che ha mancato alla sua parola, che ha fallito i suoi
impegni, non ho più infine che la bancarotta. Se muoio, al
contrario, pensaci bene, Massimiliano il mio cadavere è quello di
un onest'uomo disgraziato. Vivo, i miei migliori amici
eviterebbero la mia casa; morto, Marsiglia intera mi seguirà
piangendo fino all'ultima mia dimora. Vivo, tu avresti onta del
mio nome morto, puoi alzare la testa e dire ad alta voce: "Sono il
figlio di colui che si è ucciso, perché costretto per la prima
volta a mancare alla sua parola."
Il giovane mandò un gemito, ma parve rassegnato. Era la seconda
volta che la necessità era accettata dal suo cuore, ma non dallo
spirito.
"Ora" disse Morrel, "lasciami solo e cerca di allontanare le
donne."
"Non volete rivedere mia sorella?" domandò Massimiliano.
Un'ultima e sorda speranza il giovane la riponeva in questo
incontro, ecco perché lo proponeva.
Morrel scosse la testa.
"L'ho veduta questa mattina" disse, "e le ho detto addio."
"Non avete alcuna raccomandazione particolare da farmi, padre
mio?" domandò Massimiliano con voce alterata.
"Sì, figlio mio, una raccomandazione sacra."
"Dite, padre mio."
"La casa Thomson e French è la sola che per umanità, o forse per
egoismo (ma non sta a me leggere nel cuore degli uomini), è la
sola che abbia avuto pietà di me. Il suo mandatario, quello che
fra dieci minuti si presenterà per riscuotere una tratta di
duecentottantasettemilacinquecento franchi, non dirò mi abbia
accordata, ma mi ha offerta una dilazione di tre mesi; questa Casa
sia rimborsata per prima, figlio mio, che quest'uomo ti sia
sacro."
"Sì, padre mio" disse Massimiliano.
"Ed ora, ancora una volta, addio" disse Morrel, "va', va'; ho
bisogno di restar solo. Troverai il mio testamento nello scrigno
della camera da letto."
Il giovane rimase in piedi ed inerte, senza avere che la forza
della volontà, ma non quella dell'azione.
"Ascolta, Massimiliano" disse suo padre, "supponi che io sia un
soldato come te, che abbia ricevuto l'ordine di dar la scalata ad
un bastione, e che tu sapessi che vado incontro ad una certa morte
nell'assalirlo, non mi diresti tu come mi dicevi poco fa: "Andate,
padre mio, perché vi disonorereste restando, e val meglio la morte
che l'onta?"
"Sì, sì" disse il giovane, "sì" e stringendo convulsivamente tra
le braccia il padre, "coraggio padre mio!" disse. E si lanciò
verso l'ufficio.
Quando il figlio fu uscito, Morrel rimase un momento in piedi
cogli occhi fissi alla porta, quindi tese la mano, tirò la corda
del campanello e suonò.
Di lì a poco comparve Coclite. Non era più l'uomo di prima, questi
giorni di consapevolezza lo avevano atterrato. Il pensiero che la
Casa Morrel sospendeva i pagamenti lo curvava al suolo più che
altri vent'anni accumulati sul suo capo.
"Mio buon Coclite" disse Morrel con un accento di cui sarebbe
difficile dire l'espressione, "tu resterai nell'anticamera. Quando
verrà quel signore che venne già tre mesi fa... lo conosci?... il
mandatario della casa Thomson e French, verrai ad annunziarmelo."
Coclite non rispose; fece un segno affermativo colla testa, andò a
sedersi nell'anticamera ed aspettò.
Morrel ricadde sulla sedia, gli occhi si volsero verso l'orologio:
gli rimanevano ancora sette minuti in tutto. La lancetta camminava
con una rapidità incredibile; gli sembrava vederla andare.
Ciò che in quel momento passò nello spirito di quest'uomo che,
giovane ancora, in conseguenza di un ragionamento falso,
quantunque tale non sembrasse, stava per lasciare tutto ciò che di
più caro aveva al mondo, e per abbandonare una vita piena di tutte
le dolcezze della famiglia, è impossibile poterlo spiegare;
sarebbe stato necessario essere presenti per averne un idea.
La fronte era ricoperta di sudore, e ciò nonostante rassegnata,
gli occhi bagnati di lacrime, ma pur rivolti al cielo.
La lancetta camminava sempre: le pistole erano cariche; allungò la
mano, ne prese una e mormorò il nome di sua figlia: depose l'arma
mortale, prese la penna e scrisse alcune parole. Gli sembrava di
non avere ancora detto abbastanza addio a questa figlia
prediletta. Ritornò a guardar l'orologio: egli non contava più i
minuti, ma i secondi. Riprese l'arma colla bocca semiaperta e gli
occhi fissi all'orologio: poi rabbrividì al rumore che faceva nel
caricare l'acciarino.
In quel momento un sudore più freddo gli passò sulla fronte,
un'ansia più mortale gli strinse il cuore; intese la porta delle
scale cigolare sui cardini, aprirsi quella del suo ufficio:
l'orologio stava per battere le undici.
Morrel non si volse, aspettava che Coclite pronunciasse le fatali
parole: "Il mandatario della casa Thomson e French...". Avvicinò
l'arma alla bocca... D'improvviso, invece della voce di Coclite
intese un grido... Era la voce di sua figlia... Si volse e
riconobbe Giulia... La pistola gli sfuggì di mano.
"Padre mio!" gridò la ragazza ansante, e quasi morente di gioia.
"Salvo! siete salvo!"
E gli si gettò tra le braccia, alzando in alto colla mano la borsa
di cordonetto di seta rossa.
"Salvo? Figlia mia, che vuoi dire?"
"Sì, salvo!... Guardate, guardate..." disse la ragazza.
Morrel prese la borsa e rabbrividì, perché una lontana rimembranza
gli ricordava che quell'oggetto gli era in altro tempo
appartenuto. Da una parte c'era la cambiale dei
duecentottantasette mila cinquecento franchi già quitanzata;
dall'altra vi era un diamante della grossezza di una nocciola con
queste tre parole scritte sopra un pezzo di pergamena: "Dote di
Giulia".
Morrel si passò la mano sulla fronte: credeva di sognare.
Nel medesimo istante l'orologio batté le undici. Il martello batté
per lui come se ciascun colpo venisse ripercosso sul suo cuore.
"Raccontami, figlia mia" disse, "spiegati. Dove ritrovasti questa
borsa?"
"Nella casa numero 15 dei viali di Meillan sull'angolo del
caminetto di una meschina cameretta del quinto piano."
"Ma..." gridò Morrel, "questa borsa non è tua."
Giulia presentò allora a suo padre la lettera che aveva ricevuta
la mattina.
"E sei andata sola in quella casa?" disse Morrel dopo averla
letta.
"Emanuele mi ha accompagnata. Doveva aspettarmi all'angolo della
strada del Museo, ma, cosa strana, al mio ritorno non c'era più."
"Signor Morrel!" gridò una voce dalle scale. "Signor Morrel!"
"Questa è la sua voce..." disse Giulia.
Nel medesimo tempo entrò Emanuele col viso sconvolto dalla gioia e
dall'emozione.
"Il Faraone!" gridò, "il Faraone!"
"Ebbene che Faraone? Siete pazzo, Emanuele? Sapete bene che colò a
fondo."
"Il Faraone! signore, il faro ha dato il segnale del Faraone! Il
Faraone entra in questo momento nel porto."
Morrel ricadde sulla sedia; le forze gli mancarono. La sua
intelligenza non era capace ad ordinare questa serie di
avvenimenti incredibili, inauditi e favolosi. Suo figlio entrò a
sua volta.
"Padre mio" gridò Massimiliano, "che dicevate dunque che il
Faraone era perduto? Il faro lo ha segnalato, ed entra in porto in
questo momento."
"Amici miei" disse Morrel, "se ciò fosse, bisognerebbe credere ad
un miracolo! Ma è impossibile! impossibile!"
Tutto ciò, quantunque sembrasse incredibile, era vero: la borsa
che teneva in mano, la cambiale quitanzata, ed il magnifico
diamante.
"Ah, signore" disse Coclite a sua volta, "e che vuol dir questo
'il Faraone!'?"
"Andiamo, figli miei" disse Morrel alzandosi, "andiamo a vedere,
che il cielo abbia pietà di noi!, se questa non sia una falsa
nuova."
Scesero tutti: a metà delle scale li aspettava la signora Morrel;
la poveretta non aveva avuto coraggio di salire. In un momento
furono alla Canebière. Una gran folla era sul porto. Tutta quella
folla si divise per lasciar libero il passaggio alla famiglia
Morrel.
"Il Faraone! il Faraone!" si diceva da ogni lato, da ogni bocca.
Infatti, cosa meravigliosa, inaudita, dirimpetto alla torre di San
Giovanni un bastimento portava sulla poppa queste parole scritte a
grandi lettere bianche:
FARAONE: MORREL E FIGLI DI MARSIGLIA.
Questo bastimento era assolutamente della stessa portata e della
stessa forma dell'altro Faraone, ed era carico ugualmente d'indaco
e di cocciniglia. Gettò l'àncora, ammainò le vele. Sul ponte il
capitano Gaumard dava gli ordini, e Penelon faceva segnali a
Morrel.
Non c'era più dubbio, era la testimonianza dei sensi, e quella di
diecimila e più persone. Mentre Morrel e suo figlio si
abbracciavano fra gli applausi di tutta la città, testimone di
questo prodigio, un uomo, il cui viso era per metà coperto da una
barba nera, nascosto dietro il casotto di una sentinella,
contemplava questa scena, mormorando queste parole:
"Nobile cuore, sii felice, sii benedetto per tutto ciò che ancora
farai, e la mia riconoscenza resti nell'oscurità come il tuo
beneficio!"
E con un sorriso di gioia e di felicità, abbandonò il luogo dove
si era nascosto, e senza essere osservato da alcuno, tanto erano
tutti occupati dall'avvenimento della giornata, discese una di
quelle piccole gradinate che servono di scalo, e chiamò:
"Jacopo! Jacopo! Jacopo!"
Allora un battello venne, lo ricevette a bordo, e lo trasportò ad
uno yacht riccamente addobbato, sul ponte del quale balzò colla
leggerezza d'un marinaio; di là guardò ancora una volta Morrel,
che piangendo di gioia distribuiva amichevoli strette di mano a
tutta quella folla, ringraziando con uno sguardo singolare
l'invisibile benefattore che gli sembrava dover cercare in cielo.
"Ora" disse l'uomo sconosciuto, "addio bontà, addio umanità, addio
riconoscenza... addio a tutti quei sentimenti che inteneriscono il
cuore!"
A queste parole fece un segnale, e come se non avesse atteso che
ciò per partire, lo yacht prese immediatamente il mare.
Capitolo 31.
L'ITALIA E SINDBAD IL MARINAIO.
Verso il principio del 1838 si trovavano a Firenze due giovani che
appartenevano alla società più elegante di Parigi: uno era il
visconte Alberto de Morcerf, l'altro il barone Franz d'Epinay.
Avevano stabilito fra loro che sarebbero andati a passar quel
carnevale a Roma, ove Franz, che abitava l'Italia da più di
quattro anni, avrebbe fatto da cicerone ad Alberto.
Ora, siccome non è piccola cosa l'andare di carnevale a Roma,
particolarmente quando non si vuole andare a dormire in piazza del
Popolo, o al Foro Romano, essi scrissero a Pastrini proprietario
dell'albergo Londra in piazza di Spagna per pregarlo di serbar
loro un comodo appartamento.
Pastrini rispose che non aveva più che due camere ed un locale al
secondo piano, che lo offriva loro mediante la modica spesa di un
luigi al giorno.
I due giovani accettarono. Quindi Alberto, volendo mettere a
profitto il tempo che gli rimaneva, partì per Napoli.
Franz rimase a Firenze. Dopo aver goduto qualche tempo dei piaceri
che procura la città dei Medici, dopo aver lungamente passeggiato
in quell'Eden che vien chiamato le Cascine, dopo essere stato
ricevuto da quegli ospiti magnifici che si chiamano Corsini,
Montfort, Poniatowski, gli prese fantasia, essendo già stato a
visitare la Corsica, culla di Bonaparte, di andare a vedere
l'isola d'Elba, questo luogo della forzata sosta di Napoleone.
Una sera dunque staccò una barchetta dall'anello di ferro che
l'attraccava al porto di Livorno, vi si sdraiò in fondo, avvolto
nel suo mantello, e disse ai marinai queste sole parole:
"All'isola d'Elba!"
La barca lasciò il porto come un uccello lascia il nido, e
l'indomani Franz era a Portoferraio. Traversò l'isola imperiale
seguendo tutte quelle tracce che vi hanno lasciato i passi del
gigante, e andò ad imbarcarsi a Marciana.
Due ore dopo aver lasciata la terra, la riguadagnò di nuovo per
sbarcare alla Pianosa, ove veniva assicurato che avrebbe trovato
una quantità di pernici rosse.
La caccia fu cattiva; Franz ammazzò a stento poche pernici magre,
e come fanno tutti i cacciatori che si sono stancati senza alcun
pro, risalì nella barca di assai cattivo umore.
"Se Vostra Eccellenza volesse" gli disse il padrone della barca,
"potrebbe fare una bella caccia."
"E dove?"
"Vedete quell'isola?" continuò il marinaio stendendo il dito verso
mezzogiorno, indicando una massa conica che usciva dal mare tinta
di un bellissimo color indaco.
"Ebbene, che cos'è quell'isola?" domandò Franz.
"E' l'isola di Montecristo" rispose il livornese.
"Ma io non ho licenza d'andare a caccia in quell'isola."
"Vostra Eccellenza non ne ha bisogno; l'isola è deserta."
"Oh, per Bacco, un'isola deserta in mezzo al Mediterraneo, è una
cosa curiosa."
"E naturale, Eccellenza. Quest'isola è un ammasso di scogli, ed in
tutta la sua estensione non vi è forse un palmo di terreno
coltivabile."
"E a chi appartiene?"
"Alla Toscana."
"E qual selvaggina vi si trova?"
"Migliaia di capre selvagge."
"Che vivono leccando delle pietre?" disse Franz con un sorriso
d'incredulità.
"No, ma sfrondando le macchie, i mirti, e gli alti pruni che
nascono tra i massi."
"Ma dove dormirò?"
"O a terra, o nelle grotte, o a bordo, avvolto nel vostro
mantello. D'altra parte, se Vostra Eccellenza lo desidera, potremo
partir subito dopo la caccia: sa che noi navighiamo tanto di
giorno quanto di notte, e che quando non lavorano le vele,
lavoriamo coi remi."
Rimanendogli ancora del tempo prima di raggiungere il compagno, e
non avendo più inquietudini per l'alloggio in Roma, Franz accettò
la proposta di rifarsi della sua prima caccia.
Alla risposta affermativa, i marinai si scambiarono alcune parole
a voce bassa.
"Ebbene, che abbiamo di nuovo?" domandò. "Sarebbe sopraggiunta
qualche difficoltà?"
"No" rispose il padrone, "ma dobbiamo avvertirvi che l'isola di
Montecristo è in contumacia."
"E che significa questo?"
"Vuol dire, siccome Montecristo è disabitata, e qualche volta
serve di fermata a contrabbandieri e pirati che vengono dalla
Corsica e dall'Africa, se qualche segno denuncia il nostro
soggiorno nell'isola, saremo costretti al nostro ritorno in
Livorno, a fare una quarantena di sei giorni."
"Diavolo! Questo cambia tutto: sei giorni! Sarebbe troppo."
"Ma chi dirà che Vostra Eccellenza è stata a Montecristo?"
"Oh, questo non importa."
"Oh, ma non sarò io certamente..." grido Gaetano.
"E neppure noi!" dissero i marinai.
"In questo caso, andiamo a Montecristo."
Il padrone comandò la manovra, volse la prua sull'isola, e la
barca si avviò da quella parte.
Franz lasciò compiere l'operazione, e quando ormai si era nella
nuova rotta, quando la vela fu gonfia dalla brezza, e i quattro
marinai ebbero preso il loro posto, tre davanti ed uno al timone,
riannodò la conversazione.
"Mio caro Gaetano" disse al padrone, "voi mi diceste, credo, che
l'isola di Montecristo serve da rifugio a contrabbandieri e
pirati, e ciò mi pare ben altra selvaggina che le capre
selvatiche."
"Sì, Eccellenza, questa è la verità."
"Sapevo esservi dei contrabbandieri, ma credevo che dopo la presa
di Algeri, e la distruzione della reggenza, i pirati non
esistessero più che nei romanzi di Cooper e del capitano Marryat."
"Ebbene, Vostra Eccellenza sbaglia. Accade dei pirati come degli
assassini, che quantunque siano creduti sterminati, pure
aggrediscono tutti i giorni i viaggiatori fin sotto le porte delle
città. E' successo presso Velletri, saranno appena sei mesi. Se
Vostra Eccellenza abitasse a Livorno, come facciamo noi,
sentirebbe dire, di tempo in tempo, che un piccolo bastimento
carico di mercanzie, o un bel yacht inglese che era aspettato a
Bastia, a Portoferraio o a Civitavecchia, non è più arrivato, e
non si sa che ne sia avvenuto; e che senza dubbio si sarà
sfracellato contro qualche scoglio. Ma lo scoglio che ha
incontrato è una barca bassa e stretta, montata da sei o otto
uomini che lo hanno sorpreso e saccheggiato in una notte oscura e
tempestosa, nei dintorni di un qualche isolotto selvaggio e
disabitato, non diversamente dagli assassini che arrestano e
spogliano una carrozza di posta all'angolo di un bosco."
"Ma infine" riprese Franz sempre steso nella barca, "perché quelli
ai quali accadono simili disgrazie non fanno le loro denunzie?
perché non richiamano su questi pirati la vigilanza del governo
francese, sardo o toscano?"
"Perché?" disse ridendo Gaetano.
"Sì perché?"
"Perché prima si trasporta dal bastimento o dallo yacht sulla
barca tutto ciò che vi è di meglio da prendersi; quindi si legano
mani e piedi a tutto l'equipaggio, e si attacca al collo di
ciascuno una palla da ventiquattro, poi si fa un bel foro, come
quello di un barile, nella chiglia del bastimento catturato, si
risale sul ponte, si chiude il boccaporto, e si passa sulla barca.
In capo a dieci minuti il bastimento comincia a lamentarsi, e
gemere. Un poco alla volta affonda. Dapprima cala una delle sue
parti poi la rialza, quindi s'immerge di nuovo affondando sempre
più. D'improvviso scoppia un rumore simile a quello di una
cannonata: è l'acqua che infrange il ponte. Allora il bastimento
si dibatte come chi sta per annegarsi, divenendo sempre più
pesante. Ben presto l'acqua, troppo compressa nelle cavità,
prorompe da tutte le aperture, simile alle colonne liquide che
soffiano dalle narici le gigantesche balene. Finalmente manda un
ultimo strepito, fa un giro su se stesso, ed affonda scavando
nell'abisso una vasta tromba che per un momento si aggira, si
ricolma a poco a poco, e finisce per cancellarsi del tutto, tanto
bene che in capo a cinque minuti non c'è che l'occhio di Dio che
possa andare a discernere nel fondo del mare il bastimento
sparito. Comprenderete ora in qual modo il bastimento non ritorna
in porto, e perché l'equipaggio non fa le sue querele?"
Se Gaetano avesse raccontata la cosa prima di proporre la
spedizione, è probabile che Franz vi avrebbe pensato due volte
prima d'intraprenderla, ma la barca vogava nella direzione
dell'isola, e gli sembrò che sarebbe stata una viltà ritornare
indietro.
Franz era uno di quegli uomini che non corrono mai incontro al
pericolo, ma che, se il pericolo viene innanzi a loro, conservano
una prontezza d'animo inalterabile per combatterlo; era uno di
quegli uomini di volontà fredda, che guardano un pericolo nella
vita come un avversario in un duello, che ne calcolano i
movimenti, che ne studiano la forza, che indietreggiano spesso per
prender fiato, e per non comparir vili, infine che, conoscendo con
un solo sguardo tutti i loro vantaggi, ammazzano con un solo
colpo.
"Bah" disse, "ho traversato la Sicilia e la Calabria, ho navigato
due mesi nell'arcipelago, e non ho veduto mai l'ombra di un
bandito o di un pirata."
"Non ho raccontato tutto questo a Vostra Eccellenza" disse
Gaetano, "per farla rinunciare al progetto; mi ha fatto delle
domande, ed io ho risposto."
"Sì, mio caro Gaetano, la vostra conversazione è attraente; e
siccome voglio goderne il più lungamente possibile, così andiamo a
Montecristo."
Frattanto si accostavano rapidamente al termine del loro viaggio,
il vento era favorevole, e la barca faceva sei miglia l'ora. Man
mano che si avvicinavano, l'isola sembrava sorgere gigantesca dal
seno del mare e, attraverso l'atmosfera limpida degli ultimi raggi
del giorno, si distinguevano come le palle ammonticchiate in un
arsenale, gli scogli messi a piramide l'un sopra l'altro, e negli
interstizi di quelli si vedevano rosseggiare le macchie e
verdeggiare gli alberi. In quanto ai marinai, quantunque
sembrassero perfettamente tranquilli, era però evidente che
stavano all'erta, e che i loro sguardi scrutavano il vasto
specchio su cui navigavano, e l'orizzonte, soltanto popolato da
qualche barca peschereccia, le cui vele bianche si libravano, come
allodole, sulla cima dei flutti.
Erano distanti soltanto una quindicina di miglia da Montecristo,
quando il sole declinò dietro la Corsica, le cui montagne
comparivano a destra, delineando nel cielo il loro irregolare
profilo, e mostrando ancora illuminata l'estremità di quella massa
di pietre, che pari al gigante Adamastor, s'innalzavano davanti
alla barca.
Poco per volta l'ombra salì dal mare, e sembrò scacciare dinanzi a
sé gli ultimi riflessi del giorno che stava per finire; poi il
raggio luminoso fu spinto fino alla cima del cono, ove si fermò un
momento, come il pennacchio infiammato di un vulcano; finalmente
l'ombra sempre crescente invase progressivamente la sommità come
aveva invaso la base, e l'isola non apparve più che una montagna
grigia che andava sempre più oscurandosi: mezz'ora dopo era notte
perfetta.
Fortunatamente i marinai erano nei loro abituali paraggi, e
conoscevano fin l'ultimo degli scogli dell'arcipelago toscano;
poiché in mezzo all'oscurità profonda nella quale era involta la
barca, Franz non sarebbe stato del tutto senza inquietudine.
La Corsica era interamente sparita, e l'isola di Montecristo era
divenuta invisibile; ma i marinai sembravano avere, come le linci,
la facoltà di vedere fra le tenebre, e il pilota che regolava il
timone non mostrava il più piccolo dubbio.
Era passata circa un'ora dopo il tramonto del sole, quando Franz
credette scorgere ad un quarto di miglio a sinistra una massa
nera, ma era tanto impossibile distinguere ciò che fosse, che
temendo di muovere a riso i marinai, scambiando una nube per la
terra ferma, stette zitto.
D'improvviso apparve una gran luce, la terra poteva assomigliare
ad una nube, ma quel fuoco non poteva credersi una meteora.
"Che cosa è quella luce?" domandò Franz.
"Zitto!" disse Gaetano. "E' un fuoco."
"Ma non diceste che l'isola è disabitata?"
"Dissi che non aveva una popolazione fissa, ma dissi pure che
questo luogo è rifugio dei contrabbandieri."
"E dei pirati?"
"E dei pirati" continuò Gaetano, ripetendo le parole di Franz, "ed
è perciò che ho dato ordine di passare oltre, poiché, come vedete,
ora il fuoco è dietro a noi."
"Ma questo fuoco" continuò Franz, "mi sembra piuttosto un motivo
di sicurezza che d'inquietudine: gente che temesse di essere
veduta non accenderebbe il fuoco."
"Oh, questo non vuol dir niente" rispose. "Se voi in mezzo a
questa oscurità poteste giudicare della posizione dell'isola,
vedreste che questo fuoco in quel punto, non può essere scorto, né
dalla Corsica, né dalla Pianosa, ma soltanto in alto mare."
"Credete che annunci cattiva compagnia?"
"Questo è da stabilire!" rispose Gaetano, tenendo sempre gli occhi
fissi sull'isola.
"E come volete assicurarvene?"
"State a vedere."
A queste parole, Gaetano tenne un breve consiglio coi compagni, e
dopo cinque minuti venne eseguita nel più gran silenzio una virata
di bordo allora si riprese il cammino già fatto, e qualche secondo
dopo questo cambiamento di direzione il fuoco disparve nascosto
dietro un picco roccioso. Allora il pilota dette al piccolo
bastimento, con una girata di timone, una nuova direzione, e si
avvicinarono visibilmente all'isola distante circa cinquanta
passi.
Gaetano tolse la vela, e la barca rimase quieta sull'onda.
Tutto ciò fu fatto nel più gran silenzio; dopo il cambiamento di
rotta non era stata pronunciata una parola a bordo. Gaetano, che
aveva proposta la spedizione, ne aveva presa sopra di sé tutta la
responsabilità.
Gli altri tre marinai mentre preparavano i remi, e stavano pronti
a fuggire remando, non toglievano lo sguardo da lui per eseguire
qualsiasi manovra che lor venisse ordinata da un gesto, e che per
l'oscurità si sarebbe potuta eseguire molto facilmente.
Franz visitava le armi colla prontezza d'animo che abbiamo in lui
riconosciuta. Aveva due fucili a due canne ed una carabina, li
caricò, si assicurò degli acciarini, e aspettò.
Durante questo tempo Gaetano s'era tolto il cappotto e la camicia,
aveva assicurati i calzoni intorno ai fianchi e siccome aveva i
piedi nudi, si risparmiò la pena di levarsi le calze e le scarpe.
Così abbigliato, si mise l'indice della mano davanti alle labbra
per ordinare il più profondo silenzio, e si lasciò immergere in
mare. Nuotò verso l'isola con tale cautela che riusciva
impossibile discernere il più piccolo rumore. Si poteva soltanto
seguire collo sguardo la traccia del suo nuotare dalla scia
fosforescente lasciata dai suoi movimenti.
Questa scia ben presto disparve: era segno evidente che Gaetano
aveva preso terra. Sul piccolo bastimento rimasero tutti immobili
per una mezz'ora, trascorsa la quale, si vide ricomparire dalla
riva alla barca la scia luminosa.
In pochi momenti Gaetano aveva raggiunta la barca.
"Ebbene?" fecero ad un tempo Franz ed i tre marinai.
"Ebbene" disse, "sono contrabbandieri spagnoli; e hanno con loro
due banditi corsi."
"E che fanno questi contrabbandieri spagnoli?"
"Eh, mio Dio, Eccellenza" rispose Gaetano con un accento di vivo
amore del prossimo, "bisogna bene aiutarsi gli uni con gli altri.
Spesse volte i banditi vengono un poco troppo inquietati sulla
terra; allora ritrovano una barca, ed in essa dei buoni diavoli
come noi; vengono a domandarci l'ospitalità nella nostra casa
galleggiante. Non si può fare a meno di prestare soccorso ad un